un po’ di storia
Si deve al neuro-endocrinologo Hans Hugo Bruno Selye l’utilizzo e la definizione, nel 1936, del termine “stress” per descrivere la “Sindrome Generale di Adattamento”, ovvero la risposta funzionale con cui l’organismo reagisce a uno stressor: alla presenza di una sollecitazione, più o meno violenta, ogni essere vivente mette in atto una sequenza di risposte adattative, indipendentemente dalla natura dello stimolo, cioè dell’agente causale. Per questo Hans Selye è considerato, a ragion veduta, il padre fondatore delle ricerche sullo stress; a lui va il merito di aver “portato alla luce” il fenomeno e averlo trasferito alla comunità scientifica: non avrebbe mai pensato, probabilmente, di attivare un interesse di ricerca che, nata in un contesto biologico, avrebbe dato e ricevuto poi grandissimi apporti dalla psicologia e dalle scienze del comportamento umano.
Occorre chiarire che, da un punto di vista etimologico, il termine “stress” (in realtà utilizzato per la prima volta da Walter Bradford Cannon) è passato dal significato iniziale di avversità, difficoltà, afflizione, a quello più recente di pressione, sollecitazione, tensione o sforzo; oggi viene frequentemente usato per indicare una “spinta a reagire” esercitata sull’organismo da diversi stimoli sia di origine ambientale, provenendo dall’ecosistema in cui vive l’individuo, sia interni: ciò che portò il “padre dello stress” a formulare la sua definizione scientifica del termine.
L’idea di Hans Selye, poi confermata da innumerevoli studi, era che esistessero meccanismi biologici che presiedono alle risposte di adattamento di un organismo a fronte di un agente in grado di perturbarne l’equilibrio biochimico (milieu intérieur), uno stressor potenzialmente nocivo (noxa); un insieme di segni e di sintomi tra loro correlati e coerenti tale da far pensare all’esistenza di una costellazione di risposte, denominata, successivamente, “Sindrome Generalizzata di Adattamento” (G.A.S.): lo stress.
L’attivazione neuro-ormonale che consegue all’impatto sull’organismo da parte di un “trigger” può essere considerata la risposta adattativa messa in atto nel tentativo di contrastare gli effetti dell’evento stesso: il fattore scatenante attiva, in cascata, una serie di fenomeni neuro-ormonali, caratterizzati da modulabilità, consequenzialità e progressione temporale. Dapprima, come reazione ad un allarme od un pericolo, attraverso il coinvolgimento del sistema nervoso ortosimpatico e l’incremento dell’intensa attività secretoria della midollare della ghiandola surrenale, viene attivato il sistema catecolaminergico; in un secondo momento, al perdurare della necessità di fronteggiare l’aumento della performance, la risposta viene integrata dal reclutamento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, per gestire e vigilare sugli effetti dello squilibrio omeostatico e prevenire l’eventuale insorgenza di dis-stress generato non solo dallo stressor iniziale ma dalla contestuale presenza di cofattori eziologici o spine irritative: l’obiettivo dell’organismo è non solo ripristinare lo stato di equilibrio prima della perturbazione ma, ove possibile, favorire il processo allostatico.
una risposta soggettiva aspecifica
L’idea che molte persone hanno dello stress è che questo debba essere considerato necessariamente come un evento dalle conseguenze negative, e che, ove possibile bisognerebbe evitarlo ad ogni costo: in realtà, la definizione che Hans Selye ne diede, nel 1955, lo vedeva come «una risposta aspecifica e generalizzata a qualsiasi richiesta (demanding) proveniente dall’ambiente».
Per comprendere meglio questo concetto è bene ricordare che la specificità è la capacità di discriminare analiticamente un ente, come potrebbe essere ad esempio una sostanza chimica, in mezzo ad altre simili; per cui, con il termine «aspecifico» voleva liberarsi dall’idea che l’effetto di una sollecitazione dell’organismo, la risposta biologica conseguente, fosse sempre riconducibile a una sola causa. Mirava ad enfatizzare che stimoli differenti potessero indurre una risposta stereotipata e reiterativa: il determinante non è tanto derivante dalla natura o della qualità della sollecitazione, quanto dalla sua intensità.
Per questo motivo, affinché si inneschi una “Sindrome Generalizzata di Adattamento”, lo stressor non deve essere necessariamente negativo o dannoso, ma può anche essere intensamente piacevole o gioioso: tale risposta è aspecifica perché la sua finalità è favorire un generale adattamento dell’organismo; col termine «qualsiasi» si vuole porre l’accento che la medesima risposta è provocata da differenti fattori scatenanti o agenti causali, anche profondamente differenti fra loro e di qualsiasi natura. Anche il termine «demand» non rappresenta una semplice domanda, bensì una pretesa, un’esigenza, rilevando la compulsività della pressione esercitata nel richiedere.
La risposta di stress può essere attivata non solo da eventi straordinari, ma anche da richieste ambientali solite, purché accentuate o percepite come soggettivamente intense, o dalla presenza di cofattori eziologici, in grado di ridurre la “tenuta” soggettiva ai cambiamenti, cioè la capacità di resistere saldamente: è una risposta ad una variazione ambientale, la reazione adattiva di un organismo sottoposto all’influenza di fattori perturbanti; Lazarus e Folkman (1984), lo definirono come:
«un particolare tipo di rapporto tra la persona e l’ambiente, che viene valutato dalla persona stessa come gravoso o superiore alle proprie risorse e minaccioso per il proprio benessere.» – «Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere.»
La Kinesiopatia® utilizza la definizione:
«lo stress rappresenta la risposta dell’individuo alla disparità soggettiva fra le risorse che si ritiene di possedere e le richieste che pensiamo ci vengano fatte (dall’ecosistema o da altre persone).» (Francesco Gandolfi)
ponendo particolare enfasi sul concetto di valutazione soggettiva sia della propria capacità o abilità a fronteggiare lo stressor, sia sulla percezione personale di cosa sia uno stimolo stressante.
stress – distress – eustress
La reazione generalizzata di adattamento deriva, perciò, dalle dinamiche che si instaurano fra l’individuo e l’ambiente in cui vive: questa relazione scatena una risposta con effetti fisiologici, non necessariamente avversi o sfavorevoli: gli effetti negativi avvengono quando vi è un’incongruenza fra le richieste dell’ambiente e la capacità soggettiva di esaudirle, causando uno stato di malessere definito distress; all’opposto, viene chiamata eustress una condizione espressione di esito positivo e fonte di gratificazione per l’individuo.
Nel suo volume dal titolo «Stress without Distress», Hans Selye riconosce che lo stato di stress deve essere considerato uno stato fisiologico normale e che, di conseguenza, non può e non deve essere eluso; la convinzione al riguardo è tale, da fargli affermare, nel 1974:
«La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo, e in realtà non possiamo, evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, e adattando la nostra filosofia dell’esistenza a esso.»
Ogni individuo possiede un diverso livello di resistenza al fenomeno, che, a sua volta, non è sempre e necessariamente negativo o dannoso: gli stressor possono essere riconosciuti dalla capacità di generare angoscia e sensazione di sforzo fisico o, all’opposto, di creare una sensazione di successo. Infatti, scrive:
«dal punto di vista della sua capacità di provocare uno stress, non ha importanza che l’agente stressante, o la situazione che dobbiamo fronteggiare, sia piacevole o spiacevole: conta solamente l’intensità del bisogno di adattamento o riadattamento»
Secondo Hans Selye, ognuno possiede un “serbatoio di energie”, cioè differente vitalità, stamina, la capienza e resilienza, per fronteggiare gli stimoli esterni: in base a queste peculiarità soggettive si determina il livello di resistenza allo stress: la riserva soggettiva di energia si esaurisce facilmente quando l’agente stressante è particolarmente intenso, quando più fattori agiscono contemporaneamente, quando l’azione degli eventi sia prolungata nel tempo o quanto venga data rilevanza, soggettivamente all’agente causale.
In tutti questi casi si avrà come risultato una situazione di dis-stress, causa di patologie vuoi psichiche, vuoi organiche; se, al contrario, la risoluzione di una situazione di stress produce nell’individuo una sensazione di piacere, di gratificazione, agendo come un rinforzo positivo per simili situazioni future, l’energia del serbatoio aumenta e si incrementano le proprie capacità di affrontare nuove sfide.
le fasi dell’adattamento generalizzato
«Nessuna delle grandi forze della materia è tanto efficiente quanto la capacità di difesa e di adattabilità degli esseri viventi di fronte ad ogni mutamento. In ogni uomo vi è forse un parallelismo tra vitalità ed entità dell’adattabilità». (Hans Selye)
Molteplici fattori possono essere responsabili dell’incapienza energetica dell’organismo: stimoli fisici, come la fatica o le temperature estreme; il dolore; affaticamento mentale, come il surmenage lavorativo; pressioni sociali, obblighi o richieste vissute come pretese; noxæ ambientali sono tutti stressors in grado di innescare la risposta di adeguamento alle variazioni dell’equilibrio. Una volta che lo stress ha indotto la reazione generalizzata di adattamento, il corpo risponde con una progressività e gradualità, dipendente sia dall’intensità, sia dalla durata delle sollecitazioni stressanti, sotto forma di “fasi”:
⇒ reazione d’allarme
Contrassegnata da una reazione di stress acuto, in cui sono mobilizzate le difese dell’organismo, attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisario-corticosurrenalico; può essere suddiviso in due stadi:
⇒ fase di shock – l’organismo riconosce la presenza di una perturbazione dell’omeostasi ed inizia a valutare il tipo di risposta da mettere in atto per fronteggiare lo stressor: l’essere umano ed i vertebrati superiori possono adattare le risposte corporee (modifica dell’ambiente interno) o elaborare strategie volte a modificare il rapporto con l’esterno o incidere sull’ecosistema che li circonda (modifica dell’ambiente esterno); in realtà questa fase potrebbe essere considerata uno stato interlocutorio, non essendo ancora presenti risposte adattative. La resistenza nei confronti del cambiamento è minima.
⇒ fase di antishock – l’organismo inizia a far fronte al mutamento dell’equilibrio, attraverso meccanismi di aumento della performance fisiche accompagnati dall’elaborazione di strategie cognitive e comportamentali per fronteggiare lo stress (coping), preparandosi ad un incremento prestazionale somato-emozionale: la risposta immediata coinvolge il sistema nervoso ortosimpatico e la midollare del surrene che rilascia neurotrasmettitori della classe delle catecolamine nel torrente ematico.
Come effetto della stimolazione nervosa e della diffusione delle sostanze ormonali, si osserva un aumento del tono muscolare, incremento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, con uno stato di arousal (attivazione psicofisiologica): in breve tempo (in genere qualche ora), l’organismo si predispone ad attuare comportamenti classificabili nella cosiddetta “fight-or-escape response”, attraverso l’iniziale attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenali, con incremento del rilascio di ormoni glicoattivi come i corticosteroidi, in grado di aumentare la disponibilità di energia.
⇒ reazione di resistenza
In questa fase, visto il perdurare dell’azione degli agenti stressanti, il corpo mette in atto una strategia finalizzata a contrastare gli effetti dell’affaticamento prolungato, attraverso la secrezione di ormoni specifici: in realtà, la risposta di resistenza (ritardata) è quella presente in maniera prevalente e consistente; la sua durata è correlata al periodo di esposizione allo stressor e alla quantità di riserve energetiche dell’organismo.
La stimolazione dell’ipotalamo induce il rilascio di una serie di “releasing factor” per la produzione, da parte dell’ipofisi di ADH (ormone antidiuretico) e di ACTH (ormone adeno corticotropo): il primo, detto anche vasopressina, fronteggia la diminuita volemia mediante un aumento della ritenzione idrica e la vasocostrizione; il secondo agisce a livello della corticale del surrene, causando il rilascio di cortisolo e aldosterone.
Il cortisolo, principale ormone corticosteroideo, stimola la gluconeogenesi, cioè la conversione delle proteine in zuccheri, ed inibisce l’azione dell’insulina (insulinoresistenza); l’aldosterone agisce a livello renale aumentando il riassorbimento di sodio (Na+), che per osmosi “trascina” con sé acqua, contribuendo al ripristino del corretto livello volemico: come conseguenza del riassorbimento del sodio, si verifica un incremento dell’escrezione del potassio (K+) e degli ioni idrogeno (H+), la cui deplezione provoca l’acidificazione delle urine e l’alcalinizzazione del sangue, incrementata dalla frequente iperventilazione polmonare. Contemporaneamente, a livello delle reni, la macula densa dell’apparato iuxtaglomerulare rileva eventuali cali di pressione e tramite la secrezione di renina attiva il sistema renina-angiotensina-aldosterone: l’effetto del rilascio dell’angiotensina nel torrente ematico è una consistente e diffusa vasocostrizione.
⇒ esaurimento – recupero
Qualora permanga uno stato di stress, l’organismo, sottoposto ad un continuo depauperamento delle risorse o logoramento somato-emozionale, raggiunge uno stato di incapienza, divenendo vulnerabile: è possibile che ulteriori stimoli, anche minimali, possano sopraffare la persona; contemporaneamente l’alterata omeostasi sottopone i sistemi metabolici a squilibri, associati ad eccessivo turnover cellulare. Il risultato è, appunto l’esaurimento fisico e mentale, con l’insorgenza di danni somato-emozionali: soprattutto alla presenza di cronicizzazione, la possibile evoluzione è l’instaurarsi di un burn-out.
Viceversa, se il corpo è riuscito ad eliminare gli effetti degli stressor, allora si potrà osservare una fase di recupero: questo è possibile grazie alla neutralizzazione degli agenti causali, alla base del disequilibrio; attraverso il fenomeno dell’allostasi è possibile ripristinare i corretti set-point omeostatici. Anche l’intervento sull’ambiente esterno può favorire il risanamento dell’organismo; la rivalutazione delle priorità personali, la capacità di fronteggiare gli effetti delle pressioni sociali e di inquadrarle correttamente sono elementi fondamentali per migliorare l’efficacia somato-emozionale.
dal dis-stress all’eustress
La sequenza tipica di accomodamento allo stress potrebbe essere sintetizzata attraverso uno schema lineare:
esposizione agli stressors →
Sindrome Generalizzata di Adattamento
modifica dei valori normali (“set point”) dei sistemi omeostatici →
assestamento o risoluzione del problema – oppure – fallimento e burn-out.
Il successo nell’adeguamento ai cambiamenti non dipende solo dalle capacità di risoluzione di un problema (problem solving), dall’abilità di attuare dinamiche proattive e dalla stamina individuale, ma anche dalla presenza di risorse ambientali, economiche o relazionali: talvolta non è possibile agire sugli agenti causali o sulle modalità interpretative soggettive della realtà, ma sicuramente si può intervenire sulla disponibilità delle energie materiali o spirituali, che migliorino l’attitudine a reagire adeguatamente alle difficoltà.
Soprattutto alla presenza di cronicizzazione del disagio, nel perdurare del dis-stress, è necessario ricorrere a qualsiasi possibile fonte o mezzo in grado di fornire sostegno alla persona per affrontare la situazione di necessità: un aiuto, una sorta di soccorso che possa incrementare le possibilità soggettiva di rispondere in modo adeguato all’incremento delle richieste cui è sottoposto l’organismo.
Il professionista del ben-essere può utilizzare diversi strumenti per contrastare questo stato dis-funzionale; partendo da una valutazione multidimensionale, che permetta di cogliere l’eventuale poliedricità causale alla base dello squilibrio: riducendo l’influenza dei cofattori eziologici o il drenaggio energetico esercitato dalle spine irritative, è possibile rendere fruibile una maggiore quantità di risorse per fronteggiare l’evento percepito come “casus belli”. Se ipotizziamo che l’energia corporea scorra nel nostro organismo all’interno di un immaginario “acquedotto”, ogni “dispersione” ridurrà la possibilità di rispondere in modo adeguato al fabbisogno, limitando l’erogazione finale ad una goccia: diminuire le perdite significa rendere la portata del sistema tale da poter affrontare il “problema” somato-emozionale causato dagli stressor.
Occorre essere consapevoli che, come ribadito da Hans Selye, ogni trigger in grado di scatenare una risposta generalizzata di adattamento non è, di per sé né negativo né positivo; esiste un detto popolare che, grossolanamente, semplifica e rende lapalissiano questo concetto: «quello che non uccide, ingrassa …».
Alla luce di questa verità, dobbiamo capire che “rafforzare” la persona significa renderla più forte, cioè meglio armata e meglio equipaggiata per combattere: non importa se l’elemento scatenante sia emozionale, ambientale o relazionale/sociale, la resilienza e la forza vitale sono i discriminanti che “fanno vincere le battaglie”.
Sono gli strumenti che ci consentono di superare il distress, attraverso lo sviluppo di attitudini gestionali che esprimono la capacità di fronteggiare le sfide: imporsi sul “nemico” e trionfare nella guerra, sia essa esplicita o di logoramento, è ciò che permette a chiunque di far tesoro delle proprie esperienze. Ogni successo, ogni conquista migliora la nostra capacità di risposta alle provocazioni, alle minacce o alle intimidazioni che la vita ci pone dinanzi, rendendoci pronti ad accettare la competizione ed il confronto: dal dis-stress potenziale può nascere quell’abilità che ci aiuta, grazie all’eustress, di affrontare nuove prove.
Per questo rafforzare, da ogni punto di vista, chi è “sotto stress” significa trasformare una probabile sconfitta in un’opportunità, o citando Thomas Carlyle, possiamo più poeticamente affermare che
«la pietra d’ingombro sulla strada del debole è la pietra miliare, il punto di partenza nel cammino del forte»
Le possibilità d’intervento sono molteplici: si può agire sul versante nutrizionale, sugli effetti esercitati dalla tensione fisica che si riversa sotto forma di somatizzazione e agisce sulla postura; sull’inquietudine, sul nervosismo, sulle ansie che ci attanagliano a livello emozionale.
il triangolo della salute
Se affrontiamo il problema stress dal punto di vista della riduzione della dispersione energetica e dell’incremento delle risorse disponibili, non possiamo esimerci dal mantenere una visione olistica del disagio individuale, che si traduce, da un punto di vista “clinico” nell’applicare una valutazione multidimensionale al problema.
L’idea di fondo che guida il professionista in Kinesiologia Transazionale® è che sia necessario equilibrare i differenti “pilastri” che sostengono il benessere in modo proporzionale; già nel 1895 il chiropratico americano Daniel David Palmer ipotizzava che il corpo fosse governato da tre sistemi in grado di condizionarsi vicendevolmente: la “struttura”, caratterizzata dalla componente muscolo-scheletrica, la “chimica organica”, cioè quell’insieme di funzioni metaboliche influenzate dall’ambiente, e la “psiche”, l’insieme dei sistemi di credenza, delle rappresentazioni mentali della realtà e dell’attitudini relazionali.
Per poter essere in buona salute, i tre fattori dovrebbero bilanciarsi reciprocamente, formando un triangolo equilatero detto il “triangolo della salute”: quando un qualsiasi evento provoca un’interferenza su una qualunque di queste fondamenta del ben-essere, si avranno ripercussioni sugli altri due lati del triangolo.
D’altra parte questo può essere un importante viatico per comprendere che non sempre le manifestazioni fisiche sono espressione di una lesione strutturale o che gli stati di disagio emotivo non risentano delle influenze biochimiche: la ricerca sulle funzioni cerebrali ci ha portato a capire che certe manifestazioni “psicologiche”, come la depressione o la schizofrenia, siano riconducibili a carenze biochimiche come la ridotta produzione di dopamina; allo stesso modo, uno stato di ansia o la presenza di angoscia possono essere responsabili di disturbi posturali. Questi sono, ovviamente, solo alcuni piccoli esempi dell’influenza che ogni ambito può avere sulle altre componenti: l’interrelazione è talmente radicata che i sintomi che manifestiamo possono mimare un problema posturale, nascondendo uno squilibrio emotivo o biochimico; i disagi emozionali divengono l’espressione della somatizzazione dei traumi fisici irrisolti o la conseguenza di comportamenti come le dipendenze. In altri casi, la ricerca di confort food, disfunzioni gastro intestinali oppure la presenza di squilibri metabolici si rivelano essere l’espressione di difficoltà relazionali, idee fisse o addirittura di stati depressivi.
La ricerca, l’individuazione, l’eliminazione delle cause alla base dei problemi di salute, dovrebbe essere la priorità di ogni operatore del ben-essere, evitando di focalizzarsi solamente sui sintomi, permettendo quindi al corpo di raggiungere il benessere: uno strumento fondamentale per distinguere le esigenze prioritarie, per il professionista di Kinesiologia Transazionale®, è il test muscolare; grazie all’utilizzo di questo “indicatore neurologico” è possibile verificare la presenza di agenti biocidici, elementi in grado di mandare sotto stress l’organismo, riducendo la capacità di fronteggiare il sovraccarico.
Identificare spine irritative e cofattori eziologici o ricercare le priorità nell’ambito della multifattorialità sono solo alcune delle possibilità offerte da questa metodologia; anche nel caso in cui non si potesse agire sugli elementi causali o sui fattori scatenanti, rafforzare i lati del triangolo su cui è possibile intervenire, nonostante non rigeneri l’equilateralità, permette di puntellare e sostenere il corpo nell’affrontare gli squilibri.
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