comfort

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definizione

Il termine inglese «comfort» deriva, attraverso il francese, dal latino confortare: composto da cum, prefisso rafforzativo e, contemporaneamente indicante la partecipazione, e fortis (→ forte, potente), significa letteralmente rendere forti o rafforzare; nel tempo, similmente al verbo confortare, assume l’accezione di dare forza per tollerare le avversità, lenire le sofferenze, consolare, tirar su di morale (o fisicamente), aiutare, esortare. L’etimologia latina permette, nella lingua italiana di utilizzare sia il lemma «confort» (più simile alla radice franco-latina), sia «comfort» (più anglofona).

Nonostante il tentativo di “oggettivare” il concetto di «confort», in realtà deve essere definito come una sensazione puramente soggettiva, impossibile da misurare: in ambiti commerciali o sociali può essere descritto come ciò che viene percepito da un utente, nell’ambiente di lavoro o in determinate condizioni di servizio e serve ad indicare il “livello di benessere” avvertito, assumendo il significato di “comodità”; può essere indicato come «l’insieme di sensazioni piacevoli derivanti da stimoli esterni o interni al nostro corpo, che ci procurano una sensazione di benessere in una determinata situazione, come quando si è seduti, oppure ci si trova in un ambiente ventilato o silenzioso o illuminato da una luce senza forti contrasti».

Secondo questa definizione, il «confort» risulta ovviamente differente a seconda non solo del percepito o delle sensazioni individuali, ma dai metaprogrammi e dai patterns di ognuno, poiché non esistono situazioni che siano giudicate confortevole da tutti: oltre a questo, occorre convenire che, molto spesso, più che riconoscere il «comfort» in quanto tale ci si focalizza sulla mancanza di dis-confort, cioè sul fatto che non ci sia uno stato di disagio, che coinvolge non soltanto la sfera fisica, ma anche quella emozionale.

Il «confort» viene associato frequentemente al concetto di ergonomia e di risparmio di energia muscolare al fine di renderlo facilmente misurabile e pertanto obiettivo: si cerca di oggettivare attraverso idee di benessere standardizzate, del tipo «la posizione del busto in cui il lavoro dei muscoli della schiena è minimo è quella ortostatica, cioè a 90° rispetto al piano orizzontale e che una variazione minima di questa posizione fa aumentare il lavoro muscolare e pertanto crea affaticamento» si può definire paradossalmente il comfort oggettivo come l’assenza della sensazione di fatica muscolare, particolarmente dei muscoli lombari nella posizione seduta.

L’accettazione di questi concetti permette la riprogettazione di utensili (nel caso usato come esempio, i sedili o qualunque mezzo per sedersi) basandosi su un’idea “univoca e condivisa” di miglioramento del funzionamento. Lo stesso concetto generale di risparmio di energia può esser applicato per definire il comfort degli apparati sensoriali come la vista, l’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto, salvo che la suddetta misurazione dovrà avvalersi di formule diverse da quella impiegata per l’apparato muscolare.

confort & ease

Nella lingua inglese il «comfort», che può essere definito anche il fatto di sentirsi a proprio agio o di vivere confortevolmente, ha come sinonimo il termine «ease»: il «ben-essere» somato-emozionale spesso viene percepito come la mancanza di disagio; d’altra parte il «dis-comfort» deve essere considerato il primo passo di un processo degenerativo verso il «dis-ease» che, immancabilmente, se non si interviene per invertire quella che sembra una profezia auto-avverantesi, porta del «disease», cioè al «mal-essere», alla malattia ed al «morbo».

Il «confort» definisce la presenza di “zone franche” dallo stress, o se si preferisce «confort zone», dove esiste la possibilità di sentirsi protetti: ambienti familiari e condizioni che garantiscono un senso di riparo, una sorta di rifugio sicuro, quasi un “grembo” in grado di accogliere e fare da scudo a potenziali aggressioni, stimoli sopraliminali, situazioni che richiedano un sforzo; se da un lato questo tipo di contesto può essere considerato necessario per favorire il recupero dell’energia corporea e predisporre l’organismo all’azione guaritrice della cosiddetta «vis medicatrix naturæ», dall’altro il «comfort» potrebbe assumere le sembianze (e la sostanza) di una gabbia da cui, sentendosi protetti, diviene difficile uscire per affrontare quella dinamicità intrinseca della vita, manifestando un’azione ambivalente sull’individuo.

In questa ottica una particolare attenzione ed un discorso a sé stante meriterebbe il concetto di «confort food», cioè di alimenti consumati con la chiara finalità di favorire uno stato di benessere somato-emozionale: non di rado questi cibi possono essere connessi, direttamente, ad esperienze gratificanti o a momenti felici della propria vita, oppure essere associati a ricompense o regali od, infine essere “dolci” e quindi intrinsecamente piacevoli (per molti, ma non per tutti …); in genere il «confort food» può essere anche una semplice preferenza alimentare ed esprimersi sotto forma di snack oppure coinvolgere un pasto principale.

Pertanto se, come affermano gli psicologi Richard S. Lazarus e Susan Folkman «Lo stress è una transazione tra la persona e l’ambiente, nella quale la situazione è valutata dall’individuo come eccedente le proprie risorse e tale da mettere in pericolo il suo benessere» ovvero «un particolare tipo di rapporto tra la persona e l’ambiente, che viene valutato dalla persona stessa come gravoso o superiore alle proprie risorse e minaccioso per il proprio benessere» ci rendiamo conto di come un porto sicuro, dove sia possibile sentirsi confortati, cioè una «confort zone» dove poterci “leccare le ferite”, “ritrovare le forze”, lenire le sofferenze e sentirci consolati, ove rinfrancare il morale sia un rifugio talvolta necessario, in caso di paura o dolore. D’altra parte, il dottor Hans Selye, ricordato per le ricerche effettuate sullo stress e per la Sindrome Generalizzata di Adattamento da lui identificata e descritta, afferma che «La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si possa pensare, noi non dobbiamo e non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone vantaggio, imparando di più dai suoi meccanismi, e adattando a esso la nostra filosofia dell’esistenza.»

confort “terapeutico”

Lo psicologo Claude Pineau, nell’articolo «The Psychological Meaning of Comfort» (“il significato psicologico del confort”), spiega che «Il comfort corrisponde ad ogni cosa che contribuisce a creare un senso di ben-essere e comodità, negli aspetti pratici e materiali della vita; in altre parole costituisce un miglioramento delle condizioni di vita nel nostro ambiente (living conditions in inhabited space). Questo concetto generale richiede una necessaria specificazione poiché deve essere adattato a differenti ambiti; non è possibile utilizzare lo stesso costrutto riferito al confort di una sedia o al confort psicologico: nel primo caso si ha a che fare con un pezzo di mobilio che deve soddisfare dei criteri oggettivi di valutazione, come possono essere la morbidezza o la forma, per garantire la comodità della seduta, mentre nel secondo parliamo di esperienze soggettive di ben-essere, di cui risulta spesso difficile comprendere le cause o le motivazioni.»

«Pertanto è necessario contestualizzare i differenti significati alle situazioni oggettive a cui ci si riferiscono, anche se in entrambi i casi ci si rapporta con il concetto di confort

«Nella società attuale, dove i bisogni primari come il cibo, il sonno e la protezione dagli agenti atmosferici sono generalemente soddisfatti, il desiderio di confort riguarda altri bisogni, più complessi, che concernono il rapporto con l’ambiente in cui si vive e lo stile di vita con cui individualmente ci si relaziona. Le complesse apparecchiature ed i gadget di cui ci si circonda hanno funzioni precise e, nella maggioranza dei casi, innegabili utilità: se il possesso di questi beni materiali è legato all’idea di comfort, le persone dovrebbero sentirsi gratificati proporzionalmente alla quantità posseduta di questi dispositivi.»

In realtà la dinamica del possesso deve essere considerata compensatoria e fallimentare, non solo perché induce il bisogno di acquisire sempre maggiori beni per supplire al disagio somato-emotivo (spesso non riconosciuto) ma perché è proprio mettendosi alla prova e oltrepassando consapevolmente i confini della propria «comfort zone» è possibile acquisire quelle competenze che ci permettono di affrontare confortevolmente nuove sfide.

Il professionista che opera nell’ambito delle discipline olistiche deve essere in grado di comprendere e sfruttare, a proprio uso e consumo, questa ambivalenza/dualità: se capace, deve creare situazioni di «confort terapeutico» dove poter, grazie a tecniche mirate finalizzate a rafforzare la stamina individuale, rigenerare le risorse energetiche, incrementando la capienza e la resilienza personali, per poter superare eventuali burn-out che hanno indebolito e reso vulnerabile chi si rivolge al “artigiano della salute”; una volta superata la fase di crisi o l’impasse attraverso strumenti finalizzati al coping e grazie all’abilità di creare un reset dello stato somato-emotivo, aiutare chi lo desidera a oltrepassare i propri limiti, i confini della propria «confort zone».

comfort & performance management

Già all’inizio del secolo scorso, lo psicologo americano Robert Mearns Yerkes sosteneva, nella pubblicazione “The Dancing Mouse, A Study in Animal Behavior” (1907), che «l’ansia è in grado di incrementare la performance fino a che non viene raggiunto un livello ottimale di attivazione neurovegetativa dell’organismo (arousal): oltre quel punto la capacità prestazionale tende a deteriorarsi per l’incremento dei livelli di ansia»

Assieme allo psicologo John Dillingham Dodson, nel 1908 sviluppò la «legge di Yerkes–Dodson», che, partendo da basi empiriche, crea una relazione fra la pressione, ovvero le richieste prestazionali, e la capacità di esprimere una performance: l’incremento della resa o del rendimento aumenta di pari passo con lo stato di attivazione fisiologica o mentale (arousal) fino a quando il livello di eccitazione stesso diviene eccessivo, causando, di conseguenza, un decremento della capacità di risposta.

In realtà è stato scoperto che differenti tipi di attività richiedono differenti livelli di arousal per poter raggiungere la performance ottimale: ad esempio compiti che richiedono l’applicazione intellettiva o l’acquisizione di nuove competenze può trarre beneficio da un minor livello di eccitazione, per facilitare la concentrazione, mentre situazioni che richiedano una forte stamina o un’elevata resistenza sono agevolate da elevati livelli di arousal, in quanto lo stato di “esaltazione” psico-fisica stimola la componente motivazionale; a causa di queste differenze, al curva può assumere forme differenti, descrivendo, ad esempio la relazione diretta fra eccitazione e prestazione nel caso di attività ripetitive e ben note o, all’opposto, il crollo verticale della capacità operazionale e il rapido decremento nella resa qualora si sia impegnati in compiti che richiedano elevati livelli di attenzione o l’apprendimento di procedure complesse, cioè in quelle situazioni in cui l’ansia da prestazione può avere effetti negativi, causando dis-stress.

Studi effettuati nel 2007 sugli effetti dell’attivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene e sull’azione dei glucocorticoidi circolanti in rapporto alle capacità cognitive, hanno evidenziato una similitudine con la curva che descrive la «legge di Yerkes–Dodson», sottolineando come nelle situazioni che richiedono la creazione di acquisizione di memorie a lungo termine (come nell’apprendimento o nella creazione di metaprogrammi o patterns) un livello moderato di glucocorticoidi abbia effetti positivi mentre elevati livelli di questi ormoni (associati ad elevati livelli di stress) abbiano, viceversa, un’azione deprimente sul rinforzo neurologico alla base dell’immagazzinamento delle informazioni.

Nel 2009 Alasdair Antony Kenneth White, teorico del management, nel suo lavoro “From Comfort Zone to Performance Management: Understanding Development and Performance”, riprendendo i concetti sviluppati da Yerks, introduce il concetto di «optimal performance zone», cioè una «zona di performance massimale», oltre la quale esiste una “area di rischio” o una “zona di pericolo” («danger zone»), dove il rendimento declina rapidamente per effetto dell’incremento dello stress, agendo anche sulla capacità di prendere decisioni; all’interno della «danger zone» difficilmente si riesce ad esperire strategie alternative e si tende a utilizzare comportamenti, espedienti o tattiche utilizzate in precedenza o con cui ci si sente familiari, indipendentemente dal fatto che si rivelino vincenti o non siano utili in quel particolare contesto.

La «optimal performance», cioè la «performance massimale» richiede la capacità di massimizzare la permanenza individuale nella «optimal performance zone», cioè richiede di creare una «confort zone» dinamica, in grado di espandere l’ambito entro cui le sicurezze personali permettono di ridurre l’incremento dell’ansia, incrementando la capacità di coping: la singolarità degli esseri umani comporta che ciò che per alcuni è ansiogeno, per qualcun altro possa essere un elemento di stimolo, in grado di incrementare l’efficacia nel raggiungere obiettivi e traguardi, rendendo evidente di come si debba parlare di «optimal functioning individual zone»; la componente emozionale assume un ruolo non secondario nel determinare l’ampiezza e l’efficacia di quella che a tutti gli effetti deve essere considerato un ambito “sicuro” in cui è possibile esprimere appieno le proprie potenzialità, senza quel livello di “sovra-pressione” che può portare allo sviluppo di burn-out.

Il punto rilevante, ad ogni buon conto, non è il fatto che la relazione somato-emozionale sia in grado di impattare sulla performance individuale, quanto piuttosto che esistano emozioni che si rivelano dannose (ovvero dis-funzionali, per quella persona, in quel contesto) o vantaggiose: non è rilevante, pertanto, comprendere come quest’insieme di percezioni – sensazioni – emozioni si sia creato, ma piuttosto come agisca su di noi e se può essere trasformato; da dis-confort a supporto.

Il bisogno di conforto e la ricerca di uno stato di comfort somato-emozionale sono due esigenze primarie dell’essere umano: il prendersi cura è intrinsecamente un “atto terapeutico” (non un atto medico!).

Aggredire il dis-confort individuale offre la possibilità di aiutare a trascendere il contesto morboso, agendo sul malessere fisico, il disagio psico-spirituale, i contesti sociali capaci di ancorare le persone all’interno di dinamiche disfunzionali o le interazioni con l’ambiente: interventi efficaci in questi ambiti portano a risultati duraturi.

Sta al professionista olistico creare zone sicure per attivare la naturale propensione al ben-essere e, allo stesso tempo, aiutare chi lo desideri a non fossilizzarsi in esse, evitando che diventino trappole in cui rimanere imprigionati.

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