sindrome della Madeleine

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definizione

Chiamata anche “sindrome della Madeleine” o semplicemente “Madeleine de Proust” è quella condizione per cui una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore, un particolare gusto o un profumo, possono evocare ricordi del passato, generare flashback, attivando una sorta di effetto trigger positivo; sapori e odori che fanno tornare alla memoria i ricordi del passato.

déjà vu ed emozioni

In genere queste manifestazioni di “emotional recall” o “sense memory”, che evocano «sensazioni che circondano eventi emotivi» (memoria emotiva), inducono un senso di benessere anche se chi ne trae beneficio non sa bene il perché; altre volte si può osservare una vera e propria “sindrome della Madeleine de Proust”, per la [glossary_eclude]valenza nostalgica e sentimentale che assumono, come accade a Swann, il protagonista de «À la recherche du temps perdu – Du côté de chez Swann» di Marcel Proust, dove un sapore, attraverso un flashback, un déjà vu, fa riemergere ricordi positivi dal passato, come descrive nella traduzione dal francese Maria Teresa Nessi Somainia per Mondadori Editore:

«Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”.»

«E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine.»

«Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza.»

«Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura.»

«Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla?»

«Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire.»

«È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. È stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo.»

«Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…»

La potenza consolatoria, in grado di confortare lo spirito, che rende un cibo o un sapore «comfort food», in questo caso è il potere della reminiscenza, che fa emergere una serie di sensazioni positive, confortevoli e confortanti; emozioni che vogliamo riprovare e che, cerchiamo di riprodurre rivolgendoci col pensiero al momento in cui le abbiamo provate per la prima volta o rinnovando l’esperienza. Una volta scoperto quel particolare conforto che deriva da quello specifico cibo, col suo inconfondibile profumo e dal sapore unico e singolare, diviene il viatico attraverso cui riprovare un senso di pace e tranquillità, di serenità e sicurezza.

«Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità … retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza.»

«Chiedo al mio spirito uno sforzo di più … ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo.»

«Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi …»

«All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio ….»

Ovviamente si può verificare una situazione opposta, cioè può accadere che quel particolare sapore o quel gusto marcato, quel profumo o quell’odore che contraddistingue quell’alimento scateni un effetto trigger, cioè induca in noi un senso di malessere, anche se non siamo consapevoli del legame emotivo sottostante a tale manifestazione: il frutto avvelenato di un ricordo seppellito nella nostra mente che può essere talmente potente da causare l’inconsapevole rifiuto di questo «dis-comfort food» o addirittura provocare forme di “allergia non-allergica”, che sarebbe più opportuno chiamare intolleranze; manifestazioni così potenti da poter causare vere e proprie sintomatologie gastro-intestinali o sistemiche, espressione della somatizzazione del nostro disagio.

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